Siamo ormai nell’ultimo quarto dell’Anno del Serpente, e ho riacceso giorni fa il registratore digitale che avevo utilizzato per le tracce-base dei più recenti album di Sottofasciasemplice: Idrovolante e Filospinato.
Ma nella luce arancione del riquadro delle tracks è apparso invece il nome dell’ultimo progetto registrato, segnato come “Kagoshima”.
E allora mi sono ricordato che proprio a Kagoshima, nella patria di Saigo Takamori (uno dei samurai artefici della rivoluzione Meiji, poi indomabile capo della ribellione di Satsuma) in una notte di primavera avevo composto le tracce di base di questo pezzo, che ebbe poi un percorso diverso dai precedenti.
Circolò infatti nell’estate del 2008, e doveva teoricamente essere l’ultimo brano di Sottofasciasemplice: “Nazione”.
Un’edizione insolita, uscita in un contesto gotico o forse dark, e pubblicata solo su vinile, peraltro con un’etichetta diversa.
Forse un modo per togliere il disturbo senza farsi troppo notare, filando all’inglese… e non a caso la versione originale, “Nation”, era proprio in inglese, e il testo in italiano ne è la traduzione.
Strano anche il concetto della canzone stessa, per una band che nella “musica alternativa” fu certe volte considerata anarcoide e provocatoria: nel testo si raccontava la rinuncia alla personalità, al volto, all’espressione, il sacrificio della propria identità per un fine più alto, la Nazione.
Stavolta la “visione” – perché io parto sempre da quelle per scegliere poi suoni, ritmica, strumentazione e infine i testi – era quella di salire al crepuscolo i gradini di marmo di una sorta di Lincoln Memorial.
Nessuno intorno.
Nessuna sagoma tra gli alberi neri sui prati circostanti.
E in quel tempio repubblicano, assente l’enorme e ingombrante statua del sedicesimo Presidente americano, ascoltavo in piedi da solo la voce della Nazione, che proveniva da un altare imponente ma polveroso.
Dietro, le bandiere immobili, di colori irriconoscibili nella penombra.
La mia bandiera personale, a terra di fronte all’altare, insieme a tutti gli altri oggetti che mi definivano.
Mi parlava quindi la Nazione con una voce femminile ma buia, inquietante, a tratti isterica, quasi una Miss Havisham, la sposa abbandonata del romanzo di Dickens.
Nella versione in inglese poi, l’atmosfera nel tempio diventava quasi morbosa; un particolare nordico che nel testo italiano si perde, come si disperde la nebbia quando sorge il sole mediterraneo…
Ma anche nell’edizione definitiva il sacrificio, come un rito in cui si donava se stessi, avveniva dopo il tramonto: “..chi vuole essere con me stasera, resterà con me per sempre..”.
La canzone “Nazione” fu pubblicata solo in italiano, e mi meravigliai di trovarla presto su internet e Youtube, nonostante si trattasse di una registrazione su vinile. Dopo questi anni, quella canzone rimane per me il racconto di una cosa vista ma non fatta, come un racconto del terrore in cui lo scrittore fa aprire al protagonista una porta che lui stesso però non aprirebbe mai, nonostante la curiosità.
Sono molte le canzoni di Sottofasciasemplice che raccontano cose viste, o immaginate, ma mai fatte. I protagonisti che animano i vari episodi di quell’avventura musicale sono delle forme mascherate. Hanno il volto fasciato, o portano un elmo arrugginito, vecchie uniformi, a volte addirittura una corona di ferro che poi precipita nella sabbia.
Io do loro la voce che altrimenti non avrebbero. Mi immedesimo e faccio loro raccontare, come un medium ritmico, la loro storia, il loro fallimento, la loro condanna. Di quei personaggi non rimane nulla – oppure non sono mai esistiti – ma li anima lo stesso un’infinita voglia di catarsi o di rivalsa. Li fa vibrare la rabbia di non poter parlare ancora, come quella disperazione che fa ritornare nel mondo dei vivi dall’oltretomba i fantasmi o gli spiriti che non trovano riposo.
A vederli insieme sono una bella collezione di mostri: a volte deformi, spesso disumani, sempre trasfigurati.
In ogni modo sono delle rappresentazioni, dei racconti.
E negli album di Sottofasciasemplice, che sono sempre dei percorsi con uno o più protagonisti, il più delle volte c’è un brano finale – spesso in antitesi, anche musicalmente, con il resto del disco – in cui si accendono le luci, e il medium, spossato dall’esecuzione, ridiventa se stesso, e lo dichiara.
In alcuni casi questo momento di verità è evidente, come in “Senza Croci” (Crociato, 2000): sul palco ormai vuoto il pubblico capisce che quelle che sembravano armature, armi, bandiere, personaggi mitologici, erano in realtà oggetti di cartapesta e altri attrezzi teatrali, strumenti utilizzati per una rappresentazione.
Io non ho mai pensato che si trattasse di musica “politica”. Di oltre 50 brani distribuiti su cinque album dal 1995 ad oggi, sono pochissime le canzoni che hanno dei chiari riferimenti di critica sociale, o che affrontano in modo diretto dei temi storico-politici.
Certamente, alcuni testi sono rivolti a una comunità militante, che riconosce un vocabolario nato da esperienze comuni, e mi fa piacere che negli anni molti giovani e meno giovani siano rimasti attratti o incuriositi da questo progetto molto personale… talmente personale che suono quasi sempre io tutti gli strumenti, ad eccezione forse dei fiati e della batteria.
Rivedendo oggi le tracce registrate molti anni fa a Kagoshima, ho constatato che, a differenza del protagonista di “Nazione”, io non ho rinunciato a me stesso, alle mie passioni, alla mia personalità e alla mia libertà di esprimermi e raccontare. E non ho nessuna intenzione di farlo, come non dovrebbe farlo nessuno di noi.