Ieri tutte le divinità del Giappone si sono date appuntamento a Ise.
Sono un’infinità. Per immaginarne il numero si mormora Yaoyorozu, un modo arcaico per dire “ottocento volte diecimila”.
Per questo specialissimo Shinnenkai (il convivio di inizio anno), si sono eseguite le antiche danze Kagura, e ai divini ospiti sono stati offerti cibi prelibati, e vino di riso inviato da ogni isola dell’arcipelago del Sol Levante.
Ise Jingu è il principale santuario del Giappone, dedicato alla Dea Amaterasu, antenata della famiglia imperiale nipponica. Sono passati ormai oltre duemila anni da quando lo spirito della Dea ha scelto di risiedere nella foresta accanto al fiume Isugawa, ma oggi in Giappone lo Shinto (la Via degli Dei) sembra ancora vivo e vegeto.
Nel 2013 una quota record di 15 milioni di visitatori, e ora nei soli primi tre giorni di gennaio – lo Shogatsu, il momento in cui in Giappone è tradizione visitare i santuari come buon auspicio – oltre 620.000 persone sono passate sotto l’Ujibashi Torii, la porta sacra di accesso al Jingu: un terzo in più dell’anno precedente.
Forse in questi ultimi mesi si sono riaccese le speranze, si sono visti i risultati della politica economica condotta dal Governo Abe, si è vista Tokyo aggiudicarsi – nonostante tutto – le Olimpiadi del 2020… Ora i giapponesi si aspettano la rinascita.
Nulla è casuale, perché il lungo ponte di Ujibashi collega il mondo dei mortali al bosco sacro di Ise, come il destino comune degli uomini è legato a quello dei loro Dei.
E in questa settimana di inizio 2014, le centinaia di migliaia di giapponesi che hanno seguito il sentiero nella foresta del Jingu, hanno prima intravisto tra i rami un colore diverso, e poi, arrivati alla scala di pietra sotto al santuario, hanno visto manifestarsi il concetto stesso di novità: la Dea Amaterasu ha una nuova casa.
Lo spirito di Amaterasu si trova in un imponente edificio in legno, circondato da cinque recinti. Ogni venti anni, sin dal 690 d.C., si esegue lo Shikinen Sengu, il rito della ricostruzione del Santuario in un’area adiacente a quella del precedente, e alla sistemazione del Sancta Santorum nella nuova costruzione. Ebbene il nuovo Santuario è stato inaugurato dall’Imperatore Aki Hito lo scorso ottobre, quindi questo è il primo Shogatsu del nuovo Ise Jingu.
A volte gli europei hanno difficoltà a comprendere questa tradizione, che poco si concilia con il mantra della necessità di conservare e restaurare le antichità – più o meno interessanti – che compongono il nostro vasto patrimonio culturale. Quelli che guardano con sufficienza a questa costante opera di distruzione e ricostruzione, non a caso sono i più saccenti, che con quella snobberia eurocentrica nascondono una certa ignoranza di quella stessa cultura europea che tanto decantano.
In ogni modo, qui il concetto non è l’autenticità delle opere o degli edifici: qui si tratta dell’autenticità dello spirito e dell’azione di chi costruisce.
Ogni venti anni, dal 690 d.C. il santuario di Ise viene ricostruito interamente da zero – insieme ad altri 14 edifici del complesso sacro, e ad un migliaio di oggetti rituali, stoffe, spade, strumenti da cerimonia. Tutto viene realizzato con gli stessi identici materiali, con gli stessi identici procedimenti, con le stesse identiche tecniche tramandate nei millenni da generazioni di artigiani. La scelta dei giganteschi cedri, il loro taglio con l’ascia, il trasporto tradizionale via fiume, migliaia di cerimonie, pubbliche e anche segrete, che si susseguono per ben otto anni: la costruzione del Santuario è un’operazione tradizionale e spirituale che percorre tutte le isole del Giappone, definendone l’identità originale.
In poche parole: il Santuario di Ise è vero.
Basta allontanarsi un momento dalla folla e guardare, oltre la liscia staccionata in legno di cedro, l’immobilità del suo cortile interno. E’ sufficiente percepirne il silenzio, nonostante le migliaia di persone che si accalcano intorno al perimetro.Proprio lì guardavo ieri, quando un leggero colpo di vento ha mosso, lontano, un ramoscello di Sakaki – un arbusto sacro, simile al nostro alloro – appoggiato al portone di uno dei recinti interni. Poi, le finissime strisce di carta bianca che lo adornavano, hanno accompagnato con gentilezza il ritorno all’immobilità totale.
Impossibile non ricambiare quel sorriso.
(12 gennaio 2014)