“La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà.” Si apre così, con la prima delle tre “credenze religiose” di Gabriele D’Annunzio, la bella prefazione di Giordano Bruno Guerri al nuovo libro di Federico Lorenzo Ramaioli dedicato alla costituzione dannunziana, dal titolo “Quis contra nos? Storia della Reggenza del Carnaro da D’Annunzio alla Costituzione di Fiume” (Historica, 2018, pp. 306, Euro 18,00).
Avvocato e diplomatico, Ramaioli ha dedicato diverse pubblicazioni all’influenza delle posizioni filosofiche e religiose sugli ordinamenti giuridici, con particolare riferimento al Giappone e ai Paesi islamici. Stavolta però ha scelto di esaminare sotto quella stessa lente la costituzione rivoluzionaria promulgata da D’Annunzio nel 1920. E lo introduce Giordano Bruno Guerri, storico, scrittore, personalità brillante e poliedrica che dal 2008 ha preso le redini della Fondazione del Vittoriale degli Italiani, infondendole nuova vita, moltiplicandovi le iniziative e portando in dieci anni il numero dei visitatori dai 146 mila l’anno ai quasi 260 mila del 2017, e definisce la Carta del Carnaro “uno dei più moderni e avveniristici documenti della storia contemporanea”.
Eppure è passato quasi un secolo dal settembre del 1919, quando D’Annunzio entrò a Fiume insieme ai suoi legionari, occupandola per annetterla al Regno d’Italia. Quasi cento anni da quando nel 1920, constatata l’impossibilità di procedere all’annessione per l’aggravarsi delle tensioni diplomatiche, proclamò Fiume città-Stato indipendente, nell’inedita forma della Reggenza italiana del Carnaro.
Ramaioli fa un’analisi sistematica della Carta e del suo particolarissimo linguaggio. Esamina il modello giuridico, politico e sociale della Reggenza. Ne emerge che quello di Fiume non fu solo un tentativo di fornire una soluzione radicale alla vittoria mutilata. Molto di più: a Fiume venivano di fatto ripensate l’Italia e la stessa italianità. Il nuovo ordinamento della città-Stato, orientandosi tra le istanze sociali più rivoluzionarie e innovatrici e la ripresa di modelli arcaici – direttamente dalla Respublica medievale europea – era un’utopia giuridica e sociale che, nonostante fosse destinata a trovare ben presto la sua tragica conclusione nel Natale di Sangue, intendeva ergersi a modello per tutti quei popoli e quelle terre “irredente”, perennemente alla ricerca della propria redenzione.
E’ illuminante scoprire come proprio dalla Carta del Carnaro traggano origine molte delle istanze – bisognerebbe forse chiamarle “visioni” – che verranno poi riprese dai successivi ordinamenti giuridici italiani, pur legati a esperienze totalmente diverse: il regime fascista, la Repubblica Sociale, infine la Repubblica Italiana, con la sua Costituzione del 1948, che ancora molto deve all’esperimento giuridico dannunziano. Ramaioli mostra anzi come siano molti i punti della vigente Costituzione in cui la Carta fiumana torna come una presenza sottile, talvolta implicita, taciuta, ma pur sempre presente.
L’attualità della Carta è impressionante. Il tema dei confini, per esempio, vi occupa una posizione preminente. Da un lato, si afferma che i confini sono “segnati da Dio e da Roma” e hanno una funzione definitoria di un’identità. Non si tratta però di escludere, ma al contrario di includere, perché i confini definiscono la condivisione di un comune retaggio, di una storia, di una terra. La Reggenza afferma un triplice diritto di appartenenza ai propri confini: diritto geografico, diritto storico, e diritto umano, ossia volontà popolare. Il confine rappresentare quindi qualcosa di più ampio di una mera partizione territoriale. Va a coincidere con l’appartenenza profonda a un’identità, a una storia, a un corpo sociale. D’altro canto però, ciò non preclude una proiezione internazionale della Reggenza, che coniuga l’attenzione ai confini con l’apertura alle relazioni con altre culture e altre civiltà, destinate ad incontrarsi senza mai snaturarsi a vicenda.
Altro tema importante e altrettanto attuale è quello dello Stato sociale. Ramaioli mostra come le sue basi, nella storia costituzionale italiana, siano state gettate proprio dalla Carta del Carnaro, con l’introduzione della definizione della “funzione sociale” della proprietà privata. Non a caso questa definizione sarà successivamente ripresa – letteralmente invariata – nella vigente Costituzione repubblicana. Lo Stato sociale, che nella Carta assume la forma di uno Stato corporativo in ripresa di un modello medievale, postula come proprio centro l’istanza del lavoro produttivo, teorizzando uno Stato “fondato sul lavoro”. Non si tratta però di istituire unicamente un diritto del lavoro e un diritto al lavoro, ma di affermare al contempo un dovere del lavoro. Non è quindi uno Stato assistenzialista, ma al contrario uno Stato che, secondo un modello distinto da quelli socialisti e liberali, si propone come obiettivo di veicolare le varie capacità, forze e ingegno popolare verso un unico interesse collettivo.
E non esiste oggi carta fondamentale in cui trovino spazio così ampio la cultura e l’istruzione. Anche qui, la costituzione fiumana prende le distanze sia da una concezione totalitaria di arte come strumento di propaganda e di controllo, sia da quella di una cultura meramente individualistica e soggettivistica, inevitabilmente sfociante nel mercantilismo materialista. La Reggenza riprende il modello greco classico della tragedia come catarsi. La cultura è espressione di un retaggio identitario dato, è sublimazione di sé stessi nel tutto della comunità, è strumento di emancipazione e di partecipazione sociale, che si affianca all’emancipazione attraverso il lavoro, al contempo diritto e dovere di tutti.
A vederla oggi, la Carta del Carnaro sembra portare in sé l’antico retaggio di un’Europa libera che intende vivere e sperimentare, innovare e allo stesso tempo riscoprire le proprie radici. Forse è per questa sua vitalità che, a quasi cent’anni dalla sua creazione, è così piacevole rileggerla.
(da Il Primato Nazionale, dicembre 2018)