44 anni fa, il 25 novembre 1970, lo scrittore, drammaturgo e attore giapponese Yukio Mishima, insieme a quattro membri del Tatenokai (Società degli Scudi) – una milizia privata da lui fondata nel 1968 per “difendere i valori tradizionali del Giappone”– prende ostaggio il comandante di una base militare di Tokyo. Mishima ottiene di pronunciare un discorso al personale militare della base, invocando la ribellione dell’esercito contro la costituzione pacifista imposta dagli occupanti, poi si toglie la vita eseguendo il suicidio rituale, il“seppuku”.
* * *
Il 25 novembre 1970, a Tokyo è una bellissima giornata. Fredda certo, ma che sole!
Infatti nella base militare di Ichigaya, quando il maggiore Sawamoto si affaccia nell’ufficio del generale Mashita, il suo comandante èlìche armeggia con la tenda di una delle grandi finestre che danno sul balcone centrale.
– Generale lasci fare a me!
Ma è già risolto. Sawamoto si rimette sull’attenti.
– Sono arrivati. Il maestro Mishima e altri quattro dei suoi… della sua organizzazione.
– Quattro? Addirittura. Va bene li faccia pure entrare.
Mashita ha quasi raggiunto i sessanta. Venticinque anni di pace lo hanno reso più sereno e meno magro.
Yukio Mishima fa il suo ingresso nella stanza con un grande sorriso.
– Da quanto tempo generale! Sempre grati per la Sua disponibilità nei nostri confronti.
Ha i capelli tagliati corti, è ben rasato e anche abbronzato. Indossa l’uniforme del Tatenokai, e dalla sua cintura pende una lunga katana, la sciabola giapponese.
– Prima di tutto generale, Le voglio presentare questi membri della nostra associazione. Sono coloro che si sono più distinti nell’ultimo addestramento che abbiamo svolto insieme alle forze armate di difesa.
I quattro, anch’essi in uniforme, si fanno avanti e si inchinano. Ma hanno un’aria molto diversa da Mishima. Sembrano a disagio.
– Questo è Morita, il mio luogotenente. Ogawa, eccolo qui, è il nostro portabandiera. Naturalmente è il più alto di tutti.
Mishima sbotta improvvisamente nella sua tipica risata rauca, tanto che il generale ha quasi un sobbalzo.
– Poi ci sono i due Koga. Noi li chiamiamo Chibi Koga – lui che è più piccolo – e Furu Koga, il nostro campione di kendo. Vero?
Scherza, prendendo il giovane per la spalla e dandogli una scossa. Poi insieme al generale si dirige verso il salottino, e il maggiore Sawamoto fa accomodare i membri del Tatenokai su alcune sedie, a fianco di una delle tre porte da cui si accede alla stanza. Prima di lasciare il suo comandante con gli ospiti, Sawamoto attende che i due siano seduti sui divani di fronte al tavolino basso.
– E questa spada? chiede Mashita a Mishima.
– Ah, è un’antichità di grande valore. Guardi, è opera di Seki no Magoroku. Una lama del 1600.
– Mi piacerebbe molto vederla. E’ possibile?
– Ma certo.
Intanto il maggiore Sawamoto esce dalla stanza 201, richiudendo delicatamente la porta, tra le due alte vetrate opache che danno anch’esse sul corridoio. Sono le undici.
* * *
– Che fanno?
Nell’ufficio accanto a quello di Mashita, il colonnello Hara è seduto alla sua piccola scrivania, e con una gomma cancella alcuni appuntamenti da un’agenda. Sawamoto va ad appoggiarsi a un divanetto, e guarda fuori.
– Mah, chiacchierano. Durerà una trentina di minuti credo. Fino alle undici e mezza.
– Sì ma tra un po’ fagli portare il tè, non possiamo restare qui tutto il tempo. Di là il generale Yamazaki è già in riunione.
All’improvviso, li sorprende un rumore dalla stanza vicina. Suona come se qualcuno stesse spostando dei mobili. Sawamoto si allontana dalla finestra e va allo spioncino nascosto che collega i due uffici, e che di solito serve per controllare se gli ospiti hanno bisogno di qualcosa. Si irrigidisce.
– Colonnello! Presto venga…
La scena attraverso il vetrino opaco è surreale. Il generale Mashita è sempre sulla poltrona, ma ora è imbavagliato, e dietro di lui Chibi Koga sta finendo di immobilizzarlo legandogli mani e piedi. La visuale è scarsa, ma si distinguono chiaramente gli altri tre giovani che adesso stanno spostando la scrivania, il divano, le sedie per barricare le porte di accesso. Mishima li dirige da in mezzo alla stanza, con la spada sguainata.
– Pazzi! esclama Hara. Sono pazzi! Avverti il generale Yamazaki! Chiama tutti!
Il colonnello si guarda intorno ma non ci sono armi, solo un vecchio bokken, una spada di legno, infilata nel porta ombrelli. Hara la afferra e si precipita alla doppia porta che separa gli uffici. Non si apre.
– Che fate lì dentro! Liberate il generale!
Qualcuno dall’interno ha legato insieme le due maniglie con un fil di ferro o qualcosa del genere, e le ante si aprono solo parzialmente. Intanto dalla sala riunioni dall’altro lato della 201 accorrono il generale Yamazaki – il secondo in comando – con altri ufficiali. I passi disordinati risuonano nel corridoio.
– Che succede? Che stanno facendo? Cosa vogliono?
Adesso anche Hara è con gli altri e prova l’altra porta, quella tra le vetrate, la scuote, la forza finché il legaccio non cede e il colonnello riesce a farsi strada nella 201 con altri due ufficiali e due sergenti, superando la barricata di fortuna. Ma nessuno di loro è armato, solo lui con il vecchio bokken. L’ufficio del comandante è un caos. Nel mezzo, Mishima brandisce la katana. Dietro di lui Ogawa spinge la pesante scrivania contro l’altra porta, mentre Morita e Furu Koga si fanno avanti armati di pugnali.
– Fuori! grida Mishima agli ufficiali, e alza la sciabola sopra la testa. Fuori o uccidiamo il generale!
– Che volete? Siete pazzi! Lasciatelo andare!
I due sergenti avanzano. Anche il colonnello Hara, con la spada di legno.
– Fuori! Fuori di qui!
Mishima mena un fendente e colpisce uno dei sottufficiali all’avambraccio, quasi tagliandolo di netto. Un lungo schizzo di sangue si disegna sulla vecchia moquette. Poi con la spada si gira verso uno dei colonnelli che tentava di aggirarlo e lo ferisce alla schiena. I militari allora indietreggiano verso la porta, trascinando via i feriti. Il sergente sta perdendo molto sangue. Hara riesce con il bokken a parare altri due fendenti, mentre copre la ritirata.
Escono tutti, in un fracasso di sedie e paralumi, e tirano, tirano per richiudere la porta, ma è bloccata da un appendiabiti messo di traverso. Sbatte una, due volte poi finalmente cede e allora di colpo il rumore della vetrata che si schianta.
Silenzio.
Tutti quanti, ora separati solamente da un vetro spaccato, rimangono immobili, ansimando. Una pianta di ficus ondeggia lentamente finché non si accascia, rovesciando dal suo vaso la terra sul tappeto macchiato. I volti degli ufficiali si accalcano nel riquadro lasciato libero dal vetro. Guardano e spingono e si asciugano il volto con le maniche della divisa. Gli sguardi passano da Mishima alla sciabola insanguinata, al generale Mashita, legato alla poltrona, guardato a vista da Chibi Koga col pugnale.
– Che volete? Cos’è questa buffonata? Liberate il generale!
Nel corridoio, Hara prende da parte il maggiore Sawamoto.
– Avanti, chiama la polizia.
* * *
La voce dalla cornetta del telefono esita un momento.
– Chi?!
Si sentono delle esclamazioni in sottofondo.
– E che armi hanno?
La domanda è pronunciata in modo rude, quasi volgare. Sawamoto cerca di schiarire la mente. Si accorge che gli tremano le mani.
– Hanno una spada. Una sciabola, una katana insomma. E dei pugnali. Forse due. Tre. Ho visto anche un bastone. Hanno legato…
La voce dall’altra parte lo interrompe di nuovo. Ha un forte accento di Tokyo. Continua a fare domande al maggiore, che risponde annuendo forte, piegato sulla scrivania.
– Sì, sì. Ha chiesto di far radunare i soldati sul piazzale. Vuole fare un discorso. Un comizio… ah! e servono anche delle ambulanze!
– Arriviamo. Non fate nulla.
* * *
La tregua sembra tenere. Ora si tratta solo di aspettare. Sempre sotto gli occhi degli ufficiali nel corridoio – ai quali adesso si sono aggiunti i fotografi della polizia – Morita e gli altri hanno sistemato meglio le barricate. Le porte della 201 sono tutte sprangate solidamente. La situazione sembra sotto controllo.
Yukio Mishima, che nel frattempo ha pulito con un fazzoletto la lama della katana, è appoggiato a un angolo della grande scrivania, e si accende una sigaretta. Il fumo lo stordisce un istante, mentre riempie rapidamente il vuoto che ha nel torace.
L’operazione non è andata secondo i piani. Ma è proprio questo che distingue la realtà dall’invenzione, l’azione dalla parola: i dettagli. Tutti questi fili del telefono sulla moquette. Le sirene della polizia che si avvicinano, scavalcandosi a vicenda. La voce dagli altoparlanti che adesso chiama i soldati a radunarsi sotto il balcone centrale. Il rombo degli elicotteri. Perché la realtà è un sogno che insegue il piano d’azione, e la sua corsa è disseminata di dettagli. E’ un sogno che viaggia a due passi dall’incubo, per questo bisogna lasciarlo il prima possibile, prima che il sole della giovinezza tramonti dal volto, prima che la freschezza si ritiri dalla pelle come una tetra marea. Non c’è via d’uscita. Nell’attimo in cui si è scelta la realtà, si è scelta la lotta contro il tempo. Si è scelta la spada, la disciplina, la morte che definisce il perimetro della vita. Per forza di cose ci si è trovati a scavare nella storia, nella spina dorsale vulcanica di queste isole.
– Mettiamo l’hachimaki!
Tutti e cinque si stringono intorno alle tempie il fazzoletto bianco con il sole nascente e gli antichi ideogrammi che recitano Shichi Sho Ho Koku: “Sette Vite per la Nazione”. E come in un sogno si salta fuori dalla finestra sul grande balcone e solo allora ci si accorge delle foglie secche che si sono raccolte negli angoli, del cemento scrostato, delle tubature e dei fili elettrici che fanno il giro della balaustra, dei segni della guerra passata, ancora scolpiti qua e là nella pietra grigia del palazzo di Ichigaya. Laggiù, nel parcheggio, bloccata da due ambulanze messe di traverso, la Toyota Corona bianca con cui si è arrivati fino qui, non può fare marcia indietro. Bisogna lasciarlo il prima possibile, questo sogno. Altrimenti si rischia di andare alla deriva, insieme ai volti di quei soldati radunati sotto il balcone, che non ascoltano, che non capiscono, che non sentono. Volti vuoti e piatti, occhi tinti solo dal riflesso della cattiveria, cuori piccoli e muti, resi volgari dalla pace e dal suo pietoso cinismo.
– Che esercito è questo? Una forza armata di auto-difesa che non concepisce un valore più nobile della vita?
Non poteva essere altrimenti, non poteva essere che in questo luogo, in questo quartier generale: oggi, sotto il sole, l’orizzonte ricurvo di un’unica scintillante sciabola, nel mezzo di un esercito che ha rinunciato alla spada. Un’unica striscia di stoffa bianca dedicata alla purezza, che avvolga insieme il destino dello spirito e quello del corpo, agitata dal vento nel frastuono degli elicotteri.
– Sarà vero allora quello che dicono i militanti della sinistra? Che questo esercito è una congrega di mercenari al soldo dello straniero?
Sì, è ora di congedarsi anche dal nemico per il quale si è nutrita una simpatia impossibile, dalle università in subbuglio, dove sotto i caschi si nascondono occhi intelligenti e vivaci, e sui banchi battono, strette a pugno, mani disposte a gettare vero fuoco sulle file grigie di un ordine fasullo, per far balenare la luce rossastra di un ordine ancora peggiore. Sì, diversi davvero quegli occhi, da quelli di questi soldati impigriti. Eppure inutilmente diverse quelle grida e quegli slogan, da questi insulti ottusi e irrilevanti.
– Allora non c’è nessuno di voi? Nessuno di voi che sia disposto a morire per scagliarsi contro la costituzione che ha disossato la nostra patria?
No, è ora di fuggire il sogno che, passato il mezzogiorno della vita, si è trasformato in incubo, ha progressivamente allontanato l’artista dai favori dei circoli intellettuali, prima divertiti dal tragico malinteso per cui si voleva commuovere e invece si faceva sghignazzare, poi spaventati dall’esagerazione, dall’accelerazione insostenibile. E il traguardo non poteva trovarsi che qui, all’incrocio definitivo dello spirito e della carne, l’unica risposta capace di accecare quegli occhi appannati dal sapere, quegli strani spiriti nani nascosti nei rami del pregiudizio, nelle spine del disprezzo e della condanna.
– Noi oggi testimonieremo che esiste un valore più alto rispetto alla vita!
E ora basta, è ora che il cammino ci separi anche da questi quattro ragazzi stretti nell’uniforme del Tatenokai, perché tanto non si colmerà mai la distanza tracciata dall’età e dall’esperienza: resteranno sempre un maestro e un discepolo, e non cammineranno mai insieme, ma uno dietro l’altro. Morita lo segue, mentre dal balcone scavalca di nuovo la finestra e rientra nella stanza 201.
* * *
Yukio Mishima ha un’aria distratta e la voce roca per aver gridato.
– Credo che non siano riusciti a sentirmi.
I quattro giovani del Tatenokai lo fissano, immobili. A uno di loro il maestro consegna l’orologio da polso. Inizia a sbottonarsi la giacca.
Il generale Mashita si agita nella poltrona, tenta di divincolarsi. Riesce a disfarsi del bavaglio.
– Fermati! Non farlo! Non serve a nulla!
Mishima lo ignora. Si sfila le scarpe e le getta alle sue spalle. Prende da Chibi Koga il lungo yoroidoshi, l’affilato pugnale giapponese, poi si inginocchia a terra nella posizione del seiza, seduto sui talloni. Posa il pugnale davanti a sé e si slaccia i pantaloni. Ora il ventre è libero, ed è visibile il fundoshi di cotone bianchissimo.
Il generale Mashita si dimena, nonostante i legacci.
– Basta! Che pensi di risolvere? Fermati!
Chibi Koga lo strattona e gli rimette il bavaglio.
Scende il silenzio. Dalla vetrata rotta che dà sul corridoio si interrompe anche lo scatto delle macchine fotografiche della polizia. Morita si avvicina con la katana, e si posiziona alla sinistra del suo maestro. Sta sudando. Alza la spada sopra la spalla destra, ma la lama sembra volteggiare nell’aria tanto gli tremano le mani. Yukio Mishima si accarezza l’addome con la mano sinistra, cercando il punto in cui spingere l’arma. Il silenzio è totale. Anche Mashita è immobile. Ognuno è fermo al suo posto.
Per tre volte risuona fino in fondo al lungo corridoio il saluto all’imperatore.
* * *
Il cammino solitario prevede anche i gradini dello smarrimento, del dubbio, della paura. Dopotutto la pelle del ventre è la più morbida.
Ma l’importante è tenersi forte al corrimano. Fondamentale è non mollare mai la presa, stringere forte il manico dell’unica guida che si ha su quella strada, afferrarlo bene a due mani e tirarsi forte, fortissimo il più forte possibile, come se ci si stesse sollevando con tutto il peso del corpo.
Il pugnale affonda nella carne per cinque centimetri, ma immediatamente il corpo reagisce, i muscoli addominali si tendono cercando di espellere la lama. Mishima, completamente bianco in volto e piegato su se stesso, fatica per tenere il coltello in posizione orizzontale. Ma siamo ancora nel regno dei vivi. Secondo la tradizione, per proseguire il cammino, bisogna che anche il pugnale continui il suo percorso.
Mishima gonfia il torace e usando entrambe le mani, con uno sforzo sovrumano spinge la lama verso destra. Allora un lungo, folle e bestiale drago di fuoco sussulta e prende vita nelle interiora, pianta i suoi artigli incandescenti nelle budella, tira, avanza, strappa, mastica facendosi furiosamente strada nel ventre con un dente di acciaio. Per tredici lunghi centimetri, i muscoli tesi saltano come elastici mozzati, mentre si allarga sul tappeto un fiume fetido, fatto di sangue e di quel fango che si nasconde dentro ognuno di noi. Lentamente in quello scuro Gange tutto il fuoco dell’intestino si riversa e diventa anch’esso liquido, opaco. Il sudore, la saliva, la bile, il sangue, ogni cosa si rilascia, si apre. Qualcosa in quel corpo sospira, e finalmente si accascia.
Con tutta la sua forza Morita porta giù la sciabola, ma il fendente non va a segno, e colpisce il maestro sulla spalla destra, aprendo una profonda ferita.
– Ancora! Ancora! gridano gli altri.
Morita alza di nuovo la spada, mentre Mishima si contorce sul pavimento. Di nuovo la sciabola va fuori controllo e si abbatte sulla schiena, scoprendo sotto la pelle il bianco delle costole e della spina dorsale.
– Forza presto! Ancora! grida Furu Koga, esasperato.
Stavolta Morita colpisce il collo, ma non riesce a tagliare fino in fondo. Il gorgoglìo del sangue dalle ferite e il puzzo delle interiora lo fanno barcollare.
Furu Koga fa un passo avanti.
– Dammela! Dammi la katana!
Prende la sciabola dalle mani di Morita, si avvicina al corpo di Mishima e con un colpo netto gli taglia la testa, che rotola fino al centro della stanza. Nel silenzio, il sangue continua a sgorgare al ritmo del cuore. Due, tre, quattro volte.
Morita è in lacrime. Prende un pugnale da Ogawa, si strappa la giacca e si inginocchia. Così prevede il piano.Ormai non ha più forza nelle mani, tenta di bucare l’addome, ma riesce solo a incidersi un taglio superficiale attraverso la pancia.
– Va bene! dice forte.
Furu Koga si avvicina, solleva alta la sciabola, e con un colpo lo decapita.