Mentre ogni anno oltre un milione e mezzo di giapponesi visitano l’Italia, gli italiani che si imbarcano per un volo di tredici ore fino a Tokyo o ad Osaka sono ancora molto pochi. Nel 2013 poco più di 56 mila.
Giorni fa a Roma a casa di amici, quando a tavola ho detto a una coppia di ospiti che abitavo in Giappone, ancora una volta mi sono sentito fare una approfondita illustrazione della cultura giapponese, della stranezza del paese, del conformismo, della rigidità, della sessuofobia (?!) e di altre presunte caratteristiche di quel popolo.
Trattandosi di persone più anziane di me, non mi sono permesso di ricordare loro che, come mi avevano confessato, non avevano mai visitato quelle isole. Mi dicevano tuttavia di essere appassionate del Giappone. Ma di volare a Tokyo, nemmeno a parlarne.
Quindi per molti italiani il paese del Sol Levante non è un luogo: è una moda, oppure un mito. Ammiratori e detrattori dissertano su qualità o nefandezze di un paese immaginario, popolato da personaggi immaginari, che spesso nessun legame hanno con il Giappone vero, mai visitato.
Ma era così anche un secolo fa. Nell’immaginario collettivo del multiforme japonisme italiano dell’8oo, il Giappone che si ammirava, i cui oggetti si collezionavano, le cui donne si sognavano, i cui guerrieri si emulavano, era un mondo inventato.
Certo, si entrava in contatto in Italia con degli artisti giapponesi, con dei letterati, con dei diplomatici, ma la tendenza era – come adesso – di prendere dai loro racconti solamente quel che si voleva, e ignorare tutto ciò che non corrispondeva all’immagine che ci si era già costruiti.
Dopo la vittoria nipponica sui russi nel 1905, per chi in Italia aspirava a una rivoluzione culturale che portasse il paese fuori dalla “sudditanza”, il Giappone divenne un mito, addirittura nei casi più esagerati era la dimostrazione che le regole vetuste della morale occidentale non avevano più valore, che tutto si poteva fare, che tutto si poteva polverizzare, anche – simbolicamente – le ossa dei propri antenati: Marinetti nella sua “Guerra sola igiene del mondo” del 1915 addirittura attribuiva a un Giappone immaginario “il più violento dei simboli futuristi”, ossia l’incredibile idea di mescolare scheletri umani tritati alla polvere da sparo, per aumentarne la carica micidiale. “Tanto meglio! esclamava il poeta, cresceranno sempre più le materie esplosive, e questo gioverà assai al nostro mondo tanto floscio!”
Appunto: la lontananza delle isole, la loro virtuale irraggiungibilità, contribuiva alla fabbricazione di un’immagine che poteva sfiorare l’assurdità.
Alla fine dell’ottocento, e ancora di più nei primi anni del novecento, furono molti i viaggiatori italiani che visitarono il Giappone per motivi commerciali o anche di studio, ivi incluso quello delle arti. Ma i protagonisti della letteratura italiana che apparivano più affascinati dal mito giapponese, o che più ne facevano un loro marchio, non intrapresero mai il viaggio per raggiungerlo.
Come oggi, non era solo la distanza, ma anche la paura che il sogno si infrangesse a contatto con la realtà, ad impedire di intraprendere il viaggio. E’ il caso di orientalisti di chiara fama come Vittorio Pica, che pur avendo pubblicato diversi racconti ambientati nel Sol Levante, nonché saggi sull’arte giapponese, si auto-condannarono a “non contemplare mai l’adorata spiaggia lontana che con gli occhi della fantasia”.
“Chissà, scrive Pica nelle sue Nostalgie Artistiche, se il tanto desiato viaggio in Giappone non mi procurerebbe una dolorosa delusione. No, no, meglio sognare sempre il paese fatato Sol Levante e non andarci mai”.
Ed anche allora, come oggi, la confusione aumentava ulteriormente quando si aggiungeva il giudizio sulla presunta – e deprecata – eccessiva occidentalizzazione dei costumi nipponici: una critica che paradossalmente riusciva a convivere con l’ammirazione della capacità di quel paese di fare il salto nella modernità.
In questa strana trappola cadde lo stesso d’Annunzio, quando – pur non avendo mai messo piede in Giappone – osservava a un certo punto con fastidio come l’Impero del Sol Levante stesse “a poco a poco diventando una detestabile colonia anglo-tedesca-americana, succursale dei magazzini dell’Old England”.
E’ ancora così, e oltretutto il carattere del popolo giapponese non aiuta: l’estrema attenzione prestata a non offendere l’interlocutore, una relativa timidezza nell’affermare una posizione contraria a quella che in quel momento sembra predominare, lasciano campo libero all’invenzione e all’esagerazione.
Insomma, purché non ci si vada.