Alex sogna il cinema d’essai ma lavoricchia nel porno; vagheggia l’amicizia ma la troverà soltanto nel sottosuolo della yakuza, e si troverà presto nei guai per via di un non-amico britannico, ricco, avvampato di brame, che schiatta in circostanze imbarazzanti e lubriche; Alex coltiva l’eros nipponico nelle sue indicibili screziature di violenza, sottomissione, promiscuità. Insomma va verso la vita e la riconosce nella interminabile galleria delle sue manifestazioni contemporanee, come tante stanze più o meno abusivamente occupate da dèmoni abbaglianti di una civiltà, quella giapponese, fagocitata dalla sua natura inferiore. Torbida, appunto, come recita il titolo del romanzo, ma pur sempre equorea, sfuggente anche a se stessa. La narrazione è agitata dal vento greve del denaro, dalla paura dell’autorità e dalla dissimulazione vergognosa, dalla nauseata impossibilità di una completa integrazione nei codici e nei corpi frenetici di Tokio, coerente isola-metropoli descritta come un’escrescenza uniforme, gonfia di alcol e inibizioni, asserragliata nelle sue barriere invalicabili (classe, censo, sesso, lingua…) ma non priva di vie di fuga. L’eros è una di queste e ha il volto di due donne a modo loro complementari, al punto da confondersi: una degna d’amore nella completezza di un futuro soltanto fantasticato, l’altra posseduta nel vuoto di un presente meccanico, delicatamente triste.
In questo arco teso tra la solitudine invitta e il gesto perfetto del finale a sorpresa, tra la frammentazione dei tanti piccoli favi in cui l’uomo-massa apre o chiude la propria esistenza e l’irruzione improvvisa di un senso che riscatta dall’inerzia; in questa iperbole immatura disegnata da uno straniero in cerca di patria adottiva, si dispiega il non breve viaggio al termine del Giappone che Vattani serve al lettore dopo averne provato – indoviniamo noi – e filtrato su di sé molte limacciosità. Perché Vattani non è soltanto un esploratore di mondi che sanno stare al mondo, è anche artista e cantore di sottocultura, arciere e kendoka d’occidente, e la sua biografia narra di un corpo a corpo con la vita ma quella vera. Ecco perché il lignaggio e il destino della sua invenzione letteraria non sono scritti in un libro o nello spartito di una sinfonia, no, sono tatuati direttamente sulla sua carne. Incisi nella pelle viva di Alex, quindi, nella duplice forma degli emblemi europei e del drago giapponese ricamato in modo tradizionale, come dice ilare e fiero il suo amanuense-benefattore Horitoshi: “… sono riuscito a unire il nostro drago azzurro con le potenti e antiche creature che vengono dall’altra parte della terra, dalla Grecia, dall’antica Roma”.
E questa mappa metafisica germogliata all’ombra dell’amicizia meno raccomandabile, che in genere è la migliore, diventa anagnorisis, riconoscimento del proprio sé profondo che torna a vibrare nel santuario di Yasukuni, dove l’ingombrante eroismo militare giapponese si fa accumulatore energetico della stirpe, il vortice quieto e solenne dei kami, gli spiriti avìti, e s’incontra con la memoria selettiva degli europei, compresi i leoni italiani di El Alamein. Ed ecco allora l’audacia del gesto perfetto, ancorché costosissimo, balenare nel sangue di Alex, quel suo “dare il meglio di sé” senza pensare all’utile, alla colpa o al perdono – malattie mediorientali… Ecco la totalità in cui soffia un vento non più greve, perché è l’alito purificante del numinoso, il vento degli antenati (kamikaze) che parla di onore, coraggio, lealtà: figure inaccessibili come i dèmoni delle montagne giapponesi disabitate dal volgo, percorse dal chiarore niveo del silenzio.
Alessandro Giuli