Sono passate quasi due ore da quando abbiamo lasciato la periferia del Cairo e intorno a noi tutto è diventato color sabbia, quando sento che la macchina svolta a sinistra su una strada secondaria dissestata. Ora costeggiamo un canale zeppo di rifiuti. Devo essermi appisolato, e adesso ho la gola secca per il sole, la polvere e il calore. L’autista mi informa che tra poco saremo al carcere. Eccolo, sembra un piccolo castello medievale circondato da un alto muro in mattoni color tufo, nascosto in un’oasi. Parcheggiamo fuori dal grande portone di ferro arrugginito, facendo manovra molto lentamente per non urtare le buste di verdure, vestiti e detersivi posate a terra dalle donne che attendono l’orario della visita. Questo caldo asfissiante rende gli odori ancora più densi e appiccicosi, come se venissero assorbiti dalle pareti delle narici, dalle mucose della gola, per non andare più via.
E’ la prima volta che vedo una prigione egiziana. E’ il 1998, e da meno di un mese sono il console d’Italia al Cairo, per questo oggi sono venuto a far visita all’unico detenuto italiano in Egitto. Devo assicurarmi che stia bene, e far capire ai responsabili che noi ci occupiamo del nostro connazionale, e che ci aspettiamo che le condizioni di detenzione non mettano a rischio né la sua salute, né la sua capacità psicologica di gestire la prigionia.
Cercando ci cacciare via le mosche che mi hanno assalito non appena sono sceso dall’auto, mi avvicino alla fila dei familiari, accompagnato dall’autista egiziano che oggi mi farà da interprete con i guardiani, ma subito un forte colpo di clacson, accompagnato dallo sferragliare di un motore, ci costringe a saltare un rigagnolo puzzolente, e a spostarci da davanti al portone. E’ una vecchia camionetta della polizia, si indovina dalla vernice blu scuro scrostata. In cima alla fiancata si notano due piccoli finestrini, dalla cui grata sporgono decine di dita umane, quelle dei prigionieri che probabilmente non hanno altro appiglio a cui tenersi durante il viaggio. Con un ultimo scossone il furgone si ferma davanti al portale della prigione, che si apre con un rumore lamentoso. Ne escono un paio di guardie carcerarie dall’uniforme trasandata color khaki, portano un bastone che somiglia a un mezzo manico di scopa, e fanno segno a tutti noi visitatori di stare lontano. Quando lo sportello posteriore della camionetta viene aperto, iniziano a scendere i prigionieri, vestiti con una tuta blu. Le guardie li colpiscono sul sedere e sulle gambe con il bastone per farli filare dentro di corsa, e intanto quelli scendono uno dopo l’altro, ma sembrano non finire mai. E’ impossibile che fossero così tanti in un furgone così piccolo.
Mentre aspetto, cerco di prepararmi mentalmente all’incontro. Anche se l’ultimo rapporto del mio predecessore appariva positivo, non oso immaginare in che condizioni troverò quest’uomo chiamato Fioravante Palestini, originario di Giulianova, detenuto in Egitto da diciotto anni. Continuo ad arrovellarmi, asciugandomi il sudore dalla fronte e dal cranio, anche mentre lo aspetto nell’area destinata agli incontri. Poi, in mezzo al caos che mi circonda, distratto dal caldo e dal viavai dei familiari, dagli abbracci delle madri, dal pianto delle figlie, vedo all’improvviso avvicinarsi una figura molto più alta delle altre.
E’ lui. Capelli neri corti e pettinati, ben rasato, Palestini cammina lentamente con la schiena dritta, il che rende il suo fisico ancora più imponente. Mi accorgo che mentre mi alzo in piedi sto sorridendo per il sollievo. Lui mi saluta con garbo. “Signor console, grazie di essere venuto”.
Fioravante Palestini, detto Gabriellino, è l’uomo Plasmon. Quello che molti di noi ricordano ancora dai tempi di Carosello, quando dandoci le spalle scolpiva il nome della nota marca di biscotti sul capitello di una grossa colonna. La polizia egiziana lo cattura nel 1983 sulla nave Alexandros G, mentre si accinge a passare il canale di Suez con un carico di 230 chili di eroina. Palestini sopravvive a venti e più anni di galera in Egitto, e ora è rientrato a Giulianova, al suo mare Adriatico, che lui è capace di attraversare da solo, in pattino, fino alla sponda orientale.
E’ finalmente uscito il libro che racconta la sua storia: “L’Uomo Plasmon. La storia di Fioravante ‘Gabriellino’ Palestini, un biglietto di andata e ritorno dall’inferno” (editore Lìbrati, 2016, p. 370), scritto dal giornalista Ivan Di Nino in due anni di lavoro e approfondite ricerche storiche e giudiziarie. E’ un racconto che attraversa senza mezzi termini, con la freddezza equilibrata di una telecamera, un inquietante mondo criminale di cui riconosciamo nomi e personaggi, per poi arrivare ad un luogo più alto, dall’atmosfera rarefatta, dove governano la solitudine, la resistenza e la libertà.