Dalla fine del 2012 ho passato qualche mese a Napoli. Era un periodo non facile, e anche per questo ho un bellissimo ricordo di tutte le persone che mi hanno aiutato e sostenuto in quei mesi vissuti così intensamente.
Mi spostavo regolarmente tra Napoli, Portici, Giugliano in Campania, per incontri nel capoluogo e nella provincia. A qualsiasi ora, in piena notte o di prima mattina, almeno quattro o cinque volte al giorno passavo in automobile davanti alle vele di Scampia. Naturalmente non mi limitavo a vederle da lontano, le vele. Mi ci recai in diverse occasioni, una volta anche per un incontro con l’imprenditrice napoletana Silvana Fucito, un esempio di impegno civile contro la criminalità organizzata.
Spesso non guidavo io, e i tragitti in auto erano utili per recuperare un po’ di sonno. Capitava che in macchina si stesse tutti in silenzio, quando vedevo comparire da lontano quelle grandi costruzioni grigie.
Come molti italiani, le avevo già viste da molto più lontano, addirittura in pellicola, nel noto film di Matteo Garrone, ma adesso erano di fronte a me e si avvicinavano, girando su se stesse per via delle curve della superstrada, finché non riuscivo a distinguere le finestre, centinaia e centinaia di aperture buie, vuote, oppure illuminate di riflessi diversi, come la luce biancastra del neon, o quella azzurrina fluttuante di un televisore, migliaia di occhi che però non riuscivano a giudicarmi perché io gli sfuggivo, avvicinandomi invece di allontanarmi, riducendo la misura come si fa nella scherma, e allora l’intero orizzonte veniva oscurato da file e file di balconi dove però non vedevo nessuno, non un’anima.
La prima volta che notai la scritta era già l’imbrunire, non riuscii a leggerla bene perché era distante. Chiesi al ragazzo che guidava di rallentare un pochino, perché volevo capire meglio di cosa si trattasse, ma riuscii a distinguere solo la striscia più bassa “… verso la felicità”. Quella parola così diversa dallo strano panorama urbano che si svolgeva di fronte ai miei occhi, così in contrasto con il mio stato d’animo in quel momento, dev’essere rimasta nell’immaginazione come un oracolo, la mia curiosità si soffermava sulle parole precedenti che non ero riuscito a distinguere, come un incantesimo incomprensibile.
“Dì un po’, cos’è quella scritta?”
“Quale?”
“Quella lì, in cima al palazzo. Sulle vele, insomma.”
“Ah, è di un’artista, una donna. Non mi ricordo quando l’hanno messa lì.”
“E che dice?”
“Mi sembra che dica ‘quando il vento dei soprusi sarà finito, le vele saranno spiegate verso la felicità’.
“E chi è quest’artista?”
“Si chiama Rosaria. Sì, Rosaria Iazzetta.”
Incredibile. Resto senza parole per qualche secondo. Io ho conosciuto Rosaria Iazzetta in Giappone, dove con il suo entusiasmo e la sua creatività aveva saputo mettere in campo diverse iniziative tra il 2004 e il 2006. Avevo potuto constatare di persona, in quel periodo, quanto Rosaria fosse stimata nella comunità artistica della capitale giapponese per la sua abilità di centrare subito l’obiettivo con un messaggio forte e chiaro, interpretando la scultura anche come un segno nascosto, da scoprire e liberare non solo all’interno delle forme naturali, umane, ma anche in quelle industriali, in quelle urbane.
Quando è ripartita per l’Italia ci siamo persi di vista, come succede se tra le persone si inserisce, oltre a una distanza di novemila chilometri, l’ostacolo del tempo, declinato addirittura nelle differenze di fuso orario.
Quella grande scritta sul palazzo, ogni volta che l’ho letta e riletta, ha avuto per me il ritmo di una certezza e di un avvertimento, di una sfida. Come l’altra che vidi più tardi campeggiare sul colonnato di Scampia, che poco somigliava a tanti banali e prevedibili saluti infernali, e piuttosto acquistava il sapore tagliente, ironico e severo di un’istruzione zen: “quando la felicità non la vedi, cercala dentro”.
Rosaria Iazzetta, da Tokyo a Scampia. Incontrarla di nuovo dopo tanti anni, per una serie di coincidenze e di casualità, incontrarla di nuovo in quel momento lì, non di persona, ma attraverso la sua voce impressa a grandi lettere sul cemento, un richiamo talmente nitido che ogni volta sembra entrare in risonanza col pensiero evocato da quelle grandi costruzioni che oscurano l’orizzonte, è stato per me, come forse lo è per tanti altri, un segnale di sollievo, una conferma, una speranza.