Chi si esprime attraverso la musica e la composizione poetica, quando decide invece di rivolgersi al pubblico affidandosi alla prosa, sta irrimediabilmente superando il velo dell’ambiguità.
Comporre un brano, o mettere in musica un testo, vuol dire confrontarsi con l’equilibrio tra ritmo e melodia, con la scelta degli strumenti, con lo stile. Bisogna scegliere un tipo di musica, un genere, comprendere quale si accorderà meglio al racconto, al sentimento che si desidera esprimere, o al messaggio che si vuole lanciare. Si deve valutare in che modo poi quella melodia, quella canzone, riusciranno ad inserirsi in un insieme di opere più ampio.
Nello spazio già ristretto in cui ci si è volontariamente imprigionati, imperversa la tirannia della metrica. E per noi italiani, anzi per gli occidentali in generale, vi è spesso la necessità della rima. E cos’è mettere in rima, se non costringere un’idea entro i limiti di una struttura artificiale, falsata, che ci impedisce di parlare normalmente, con le parole che vorremmo, e ci fa scegliere i vocaboli per ragioni che dipendono dalle sillabe, e non per il loro senso? E’ un esercizio matematico, obbligatorio.
Alla fine, se il risultato di questa operazione avesse la forma dell’anima, troveremmo un’anima dall’apparenza mostruosa. Una forma vivente che sopravvive tagliata, cucita, legata, amputata, fasciata e ricoperta di cicatrici, così lontana dalla vitalità e dalla purezza dell’idea originale.
Nella lingua giapponese – dove almeno la rima non conta – l’esercizio che porta alla nascita della poesia non è solo frutto degli strumenti della metrica e del conteggio delle sillabe, ma fa conto sull’armonia anche visiva del testo, che si raggiunge attraverso la scelta degli ideogrammi, o di quanti di essi si utilizzano invece di ricorrere ad altre forme di alfabeto.
Di conseguenza la poesia in Giappone è qualcosa che non solo si legge, ma che si può contemplare con gli occhi. Nel paese del Sol Levante, le frontiere tra arte visiva, poesia e prosa sono forse meno definite che da noi.
Un esempio di questa raffinata alchimia è lo stile dello scrittore – ma anche attore, poeta, autore e regista di cinema e teatro – Yukio Mishima.
Egli è un grande maestro della parola, che ha raggiunto in quest’arte un livello altissimo.
Ripetere questa affermazione è banale, ma importante. Perché quando si cita Mishima, soprattutto in Occidente, il pensiero va subito al destino che ha scelto.
Durante la sua vita, egli ha elaborato un suo pensiero personale, libero e provocatorio, e vi ha costruito intorno la sua vita, i suoi progetti letterari, teatrali, cinematografici, movimentistici. Si cercano allora nei temi che ha affrontato, nelle storie che ha costruito, nei personaggi a cui ha dato vita, delle tracce di questa sua ricerca, dei segni premonitori, quasi i sintomi di un’ossessione.
Eppure c’è un elemento fondamentale che va al di là dei racconti, dei protagonisti, dell’azione e delle scelte eccezionali che hanno portato la vita di questo scrittore alla sua estrema conclusione.
Prima di tutto, Yukio Mishima ha uno straordinario talento nello scrivere.
Non si arrende mai ai confini della lirica tradizionale – incluso il teatro No – né a quelli della prosa, ma li reinterpreta dando loro la stessa tagliente severità. Sin da giovanissimo è protagonista della realtà artistica e intellettuale del suo paese – ma anche presente nella vita politica con articoli, interviste e saggi – e moltiplica racconti brevi, romanzi, pièces teatrali, sceneggiature.
C’è una chiarezza nella scelta del suo vocabolario, un’elegante quanto cristallina assenza di ambiguità, una severità nella sua rinuncia all’utilizzo di vocaboli onomatopeici, un virtuosismo nella sua scelta degli ideogrammi, una ricchezza di aggettivi nella sua prosa, una leggerezza nelle frasi – pur relativamente lunghe – con cui affronta i passaggi descrittivi, che lo rendono senza ombra di dubbio uno dei più geniali scrittori del ventesimo secolo, a livello mondiale.
Non è un caso quindi, se anche in Italia, per chi sente che la sua attività creativa è talmente collegata con il significato della propria esistenza da influenzare il proprio destino, Yukio Mishima diventi esempio, e susciti ammirazione.
Anche se negli ambienti politici e culturali – non solo in Italia – che più attribuiscono centralità ai concetti di onore, lealtà e amor patrio, la figura di Mishima raggiunge i livelli del culto della personalità, è difficile considerare la conclusione della sua avventura da un punto di vista politico. L’azione nella base militare di Ichigaya non è stata di natura politica. Non ha avuto – né avrebbe potuto avere – effetti su una eventuale modifica della Costituzione giapponese, per restituire al paese delle forze armate rispetto alle “forze di autodifesa”.
Certamente, nel 1970 il suicidio spettacolare di Mishima ha avuto un forte impatto negli ambienti nazionalisti giapponesi, e ha senz’altro contribuito ad allargarne le basi del consenso. Tuttavia non mancò di suscitare delle critiche anche nell’estrema destra, dove vi fu chi paventò il rischio che i giovani si adagiassero nel mito nichilista dell’azione fine a se stessa, del “beau geste” privo di esiti concreti.
Anche il Tatenokai, la “Società degli Scudi” difficilmente può considerarsi una formazione politica. Era frutto dell’immaginazione di uno scrittore geniale, attore di grande fascino, che aveva convinto molti giovani in buona fede ad arruolarvisi, a mettersi in divisa e a divenire simbolo, immagine di un modo diverso di vivere il Giappone del dopoguerra.
Non è un caso che la presentazione del Tatenokai al pubblico e alla stampa sia avvenuta non in una caserma, ma sul terrazzo del Teatro Nazionale, luogo insolito per far sfilare un corpo paramilitare.
Il valore dell’esempio di Yukio Mishima si riferisce piuttosto a due aspetti della nostra esistenza, intesa come l’effetto che abbiamo sulle persone, sulla natura e su cosa ci è intorno, per il breve tempo di una vita.
Uno riguarda l’uomo, la sua creatività, la sua ispirazione e la sua espressione artistica, che non possono essere censurate, dileggiate, valutate da tribunali, comitati o commissioni, perché esse sono lontane dalle leggi degli uomini quanto sono vicine alla percezione del divino.
L’atto finale, il sanguinoso sipario affidato al pugnale, cancella definitivamente ogni ottusa censura, ogni malevola presa in giro, toglie la parola ad ogni critico del narcisismo e del “grand-guignol”.
Quella fine tragica è il richiamo più feroce a una lotta per la libertà che riguarda ognuno di noi, in qualsiasi direzione si muova, a seconda dell’educazione e delle inclinazioni personali.
E’ la lotta per diventare noi stessi, ed essere fedeli alla nostra natura, forse l’unica lotta degna di ispirare le scelte degli uomini e orientare il loro destino, fino alla morte.
L’altro aspetto riguarda invece i valori, gli ideali, quelli che una società morente definisce “più alti” degli uomini, troppo alti anzi, ma che al contrario noi sappiamo essere nati dagli uomini, incarnati dalle loro azioni, dotati di più o meno forza e dignità a seconda della forza e della dignità di chi per essi combatte.
Yukio Mishima si è ucciso eseguendo il terribile rito del seppuku, dopo essersi legato attorno alla testa un hachimaki che recava la scritta: “Servire la Nazione per Sette Vite”.
Bisogna smettere di considerare strano, insolito, se non addirittura inaccettabile, il fatto che una persona della sua intelligenza, del suo talento, della sua raffinatezza, cresciuta in un ambiente borghese, abbia scelto di dedicare la sua vita a un’ideale così chiaramente definito da quei quattro ideogrammi.
Per questo è bene conoscere più in profondità la produzione letteraria di Yukio Mishima, i suoi successi di pubblico, come si sia evoluto il suo pensiero, attraverso passaggi facilmente identificabili di volta in volta con la pubblicazione delle sue opere.
Non solo in questo ci aiuta il meritorio lavoro di ricerca e di analisi fatto da Federico Goglio, peraltro musicista e compositore, quindi avvezzo a trovare l’equilibrio tra l’ispirazione e la tecnica. Vi è qualcosa di più, perché è opportuno che a raccontare Mishima siano anche persone che nella loro vita scelgono di incamminarsi su un percorso valoriale simile al suo, che cercano di condividere l’universo a volte decadente, a volte eroico che lui ha dipinto, mettendo alla prova le loro capacità espressive, fino a misurarsi con il peso dell’acciaio attraverso le rigide regole della scherma giapponese. Il valore aggiunto di questo approccio è la capacità di interpretazione e di immedesimazione, il tentativo di raggiungere una sintonia sufficiente a comprendere in che modo oggi, quei valori a cui Mishima si è ispirato – e poi letteralmente consacrato – nel 1970, possono rapportarsi con la nostra società contemporanea dell’immagine, dei social network, della realtà virtuale.
Questo mondo malato ha trasformato eloquenza, ricchezza, educazione, in segni caratteristici di una borghesia decadente, stanca, cinica e imbelle, priva di valori.
Ma occorre reagire al paradosso dell’imbarbarimento.
L’amor patrio, il coraggio, la disciplina, la lotta per affermare la propria identità, sono ideali che vivono attraverso gli uomini che li propugnano. Se questi uomini hanno un naturale talento, o se la fortuna ha concesso loro di nascere in un ambiente agiato, quegli ideali non potranno che trarne giovamento.
Con la sua arte e con la sua morte Yukio Mishima riesce ancora a dimostrare che gli dèi e le Patrie sanno premiare a modo loro chi – quali che siano la sua educazione o la sua ricchezza – è più sensibile e cortese, e si dedica anima e corpo a rafforzare l’identità del proprio popolo e della propria terra, perché così facendo migliora se stesso.
Mario Vattani