A leggere oggi degli scontri di Ferguson, viene da pensare che è naturale, quando il senso di emarginazione acquista il sapore stantìo dell’immutabilità, cercare qualcuno che altrove, fuori dai confini della propria esistenza, alzi lo stendardo della riscossa. In fondo ai neri americani è già successo, almeno una volta.
Nel 1905, la marina giapponese sbaragliò la flotta russa e sbalordì il mondo. Fu la prima, storica, schiacciante vittoria di un paese non occidentale su una potenza europea. L’eminente autore afroamericano W.E.B. DuBois la salutò con gioia: il Giappone aveva finalmente spezzato “la sciocca magia della parola ‘bianco’, aprendo la strada a una rivolta dei popoli di colore contro lo sfruttamento”.
Quando DuBois, e altri come lui nella stampa afroamericana, auspicavano “un’alleanza globale dei popoli non bianchi”, era la loro risposta alle teorie razziste dell’epoca. Nasceva il “black internationalism”, guidato da stimati intellettuali del Civil Rights Movement come lo stesso DuBois, sua moglie Shirley Graham, e poi – con un tocco di demagogia – da militanti come Marcus Garvey.
Un movimento importante, forte della fiorente stampa “nera”, dove si distinsero personalità del calibro di Booker T. Washington e James Weldon Johnson. Adesso, con il prepotente ingresso del Giappone sulla scena internazionale, gli afroamericani non erano più isolati, condividevano con gli altri popoli oppressi dal giogo coloniale una speranza di riscossa.
Un primo contatto visibile si ebbe nel 1919 alla Conferenza di Parigi, quando la delegazione giapponese guidata dal barone Makino incontrò ufficialmente i rappresentanti delle comunità afroamericane. Alcuni di loro – come l’editore William Monroe Trotter – avevano dovuto raggiungere Parigi di nascosto, perché il Dipartimento di Stato negava loro il passaporto. I giapponesi presero l’impegno di includere nello statuto della Lega delle Nazioni un chiaro riferimento all’eguaglianza delle razze, una condanna della discriminazione. L’opposizione delle potenze coloniali, nonché dello stesso Presidente americano Wilson, fu talmente violenta che il tentativo fallì, ma ormai per i neri d’America il Giappone era the champion of the darker races, il “campione delle razze scure”.
Coloro che nell’America segregazionista si opponevano alla piena eguaglianza dei neri, temevano ora il pericolo giallo, e l’FBI monitorava i sempre più proficui rapporti tra i japanese agents e le comunità nere. Personalità come DuBois venivano invitate ufficialmente in Giappone, la black press riferiva sui successi della potenza asiatica, e mentre saliva la tensione nel Pacifico, grandi organizzazioni afroamericane come l’UNIA (Universal Negro Improvement Association) insorgevano contro l’adozione nel 1921 dell’Anti-Alien Land Law, che impediva agli immigrati nipponici di possedere terreni negli Stati Uniti: “i giapponesi sono i nostri migliori amici, tuonava il loro presidente Gordon, hanno lottato a Parigi per il riconoscimento dell’eguaglianza delle razze, e adesso il nostro paese vuole togliere loro ciò a cui hanno diritto”.
Grazie all’azione metodica e spregiudicata della rete giapponese dei Japan Institutes, l’attrazione fu tale che resistette anche al colpo di mano nipponico in Manciuria: furono pochi i neri che trovarono da ridire su quel progetto, nonostante esso fosse altrettanto colonialista dell’impresa etiopica italiana, la quale invece fu duramente condannata.
Non che a Tokyo, durante i decenni che portarono alla fatidica data di Pearl Harbor, l’importanza della numerosa e prolifica popolazione nera negli Stati Uniti non venisse valutata attentamente. Già nel 1921, vent’anni prima della guerra del Pacifico, usciva in Giappone un romanzo di fantapolitica di Kojiro Sato, nel quale si immaginava un conflitto Giappone-USA: non appena i giapponesi sbarcavano sulla West Coast, immediatamente dieci milioni di neri insorgevano contro le truppe americane, fino alla battaglia decisiva di New York.
Era relativamente facile per la propaganda giapponese (ma anche per alcuni faccendieri di dubbia origine), giocare sulla sensibilità degli afroamericani, in quel momento – nonostante il crescente peso delle correnti comuniste – ancora legati ad una visione “razziale” dei rapporti internazionali, e la cui lealtà verso gli Stati Uniti veniva quotidianamente messa alla prova dall’odioso sistema della segregazione.
Non a caso, quando finalmente scoppiò la guerra del Pacifico, il Direttore dell’FBI, Edgar Hoover, prese subito di mira le organizzazioni afroamericane, e i loro contatti con gli istituti di cultura giapponesi. Con l’arresto di alcuni esponenti neri ad Harlem, venne rinvenuta una copiosa documentazione che, almeno agli occhi degli investigatori, dimostrava un tentativo nipponico di assicurarsi il supporto delle comunità afroamericane, con intenti sovversivi.
Nonostante la stretta dei servizi di sicurezza spingesse i leader delle comunità a ribadire la loro lealtà alla nazione, tra i neri il concetto che la guerra del Pacifico fosse in realtà una “guerra tra razze” rimaneva diffuso. Per molti di loro, nonostante il rafforzamento della linea di sinistra e antifascista, e il progressivo disinnamoramento con il Giappone, rimase comunque difficile sostenere le ragioni del conflitto, quando in America la segregazione si spingeva fino al plasma sanguigno: quello donato dai bianchi era separato, e destinato unicamente ai feriti dello stesso colore di pelle.
Illuminanti alcuni articoli pubblicati in piena guerra sulla “black press” da personaggi come Lucius Harper, Direttore del Chicago Defender: “molti di noi credono che una vittoria del Giappone contro gli Stati Uniti andrebbe a vantaggio dei neri, risolvendo il problema razziale in questo paese”.
Nel 1941, il premio Nobel Pearl Buck spiegava sul New York Times che “per molti americani di colore, la perdita di speranza risulta nel rifiuto del patriottismo. Vi è tra i loro leader chi spera in una vittoria del Giappone, ritenuto la futura guida dei popoli non bianchi”.
Anche oggi come allora, in Europa come negli Stati Uniti, la rabbia di chi si sente irrimediabilmente discriminato può portare a guardare fuori, a cercare un soggetto esterno che guidi la riscossa contro la supremazia dei “bianchi”, qualcuno che sia più spietato di loro, qualcuno che li faccia tremare.