Da ultimo alcune operazioni di polizia hanno confermato la presenza nel nostro paese di una rete di sostenitori del Califfato. L’operazione “Mosaico”, effettuata dalla Digos di Roma e di Latina, ha fatto luce sulla rete di relazioni in Italia del terrorista tunisino Anis Amri, autore dell’attacco del 19 dicembre 2016 al mercatino natalizio di Berlino, ucciso a Sesto San Giovanni da due poliziotti italiani alcuni giorni più tardi. Nelle abitazioni degli arrestati è stato trovato materiale digitale per l’auto-addestramento, video di propaganda e altre informazioni sull’uso di armi da fuoco e lanciarazzi. Una parte del materiale lo dobbiamo al 23enne di origine marocchina Elmahdi Halili, arrestato a Torino, uno tra i primi in Italia ad aver prodotto propaganda jihadista, simile a quella utilizzata dall’egiziano arrestato a Foggia, Abdel Rahman Mohy Eldin Mostafa Omer, per inculcare la dottrina ai bambini nell’istituto islamico che dirigeva.E’ un dato di fatto, la propaganda jihadista è destinata a sopravvivere alla perdita del controllo territoriale da parte del Daesh nel teatro siro-iracheno. Anzi, i segnali la danno in aumento, e si presume che ciò risulterà in un aumento degli attentati nei paesi occidentali, dove ogni attacco rivendicato acquista ampia visibilità e distoglie l’attenzione dai fallimenti militari del Califfato.
La centralità del piano mediatico per il terrorismo islamico non è una novità. Già alla fine degli anni ’80 Abdullah Yussuf Azzam, uno dei fondatori di Al Qaeda, dichiarava che “metà della jihad è nei media”, e tutti ricordiamo le minacce video di Bin Laden all’occidente dopo l’11 settembre 2001. Azzam fu ucciso nel 1989, ma oggi l’ISIS – gruppo nato dalla branca irachena di Al Qaeda – dispone di mezzi ben più moderni per allargare il suo bacino d’ascolto.
La diffusione in tutto il mondo degli smartphone e dei collegamenti internet, la possibilità di reclutare giovani esperti in comunicazione in tutti i continenti, fa sì che oggi la battaglia del “Califfato 2.0” si giochi in gran parte sul piano mediatico.
Sarebbe interessante sapere a che punto siamo in Italia in termini di produzione locale di propaganda jihadista. Quella sviluppata per il mondo musulmano, intesa per radicalizzare i giovani e formare nuovi terroristi, è diversa dalla guerra psicologica lanciata contro l’Occidente, intesa per spaventare le opinioni pubbliche con video cruenti di prigionieri decapitati. Promette ai ragazzi potere, armi e donne, mentre alle ragazze racconta di una vita al fianco di un guerriero coraggioso che lotta per una giusta causa, un mondo migliore in cui far crescere i propri figli. Spesso non è in lingua araba: il materiale è in inglese, in francese, in tedesco, perché l’obiettivo è coinvolgere giovani che essendo cresciuti fuori dal Medio Oriente, non parlano arabo correntemente.
La prima rivista in lingua inglese per indottrinare e addestrare terroristi è stata Inspire – memorabile l’articolo “Fabbrica una bomba nella cucina di tua madre”, con le istruzioni per trasformare una pentola a pressione in un ordigno esplosivo. Ideata nel 2010 dall’imam yemenita-americano Anwar Al Awlaki, Inspire viene pubblicata da Al Qaeda nella penisola arabica, anche se ormai Al Awlaki è stato colpito in Yemen nel settembre del 2011 da un missile americano Hellfire, mentre si spostava in automobile. L’ISIS ha seguito l’esempio, pubblicando negli anni una serie di periodici simili: Dabiq in inglese, Dar al-Islam in francese, Kibernetiq in tedesco, Istok in russo, Constantinople in turco. Dal settembre 2016 sono stati soppiantati dalla rivista Rumiyah, pubblicata mensilmente dalla macchina propagandistica dell’ISIS in più di dieci lingue, anche in indonesiano e in uiguro.
A questo tipo di materiale, nonché ai video che circolano su internet, sono stati esposti tutti i giovani autori di attacchi terroristici organizzati in Occidente secondo le modalità del “terrorismo fai da te”.
Le forme di contrasto immediato della propaganda jihadista online, come il blocco dei siti internet e degli account utilizzati per diffondere il materiale, funzionano poco. Anche gli appelli a non dare visibilità mediatica ai terroristi lasciano il tempo che trovano, visto che in occidente vige il diritto di informazione, e poi l’azione dei media può essere utile anche per smontare la propaganda jihadista.
Al di là dell’impegno delle forze dell’ordine, è tutto il nostro sistema che deve reagire concentrandosi sui giovani, perché è a loro che si rivolge la propaganda jihadista, e un ruolo fondamentale dovrebbe averlo il nostro sistema educativo. Invece oggi le nostre giovani generazioni sono tenute all’oscuro di questa realtà, salvo venir poi inquadrate – ogni volta che un attentato lo richiede – in ordinati plotoni di piagnoni, armati di gessetti e candeline, che intonano “imagine all the people”.
E’ nelle scuole che occorre agire, con un programma mirato a due obiettivi che sono alla base della sicurezza: conoscenza e prevenzione.
Conoscenza vuol dire smetterla di considerare la propaganda jihadista come un tabù. Esiste, è di alto livello, viene realizzata da professionisti, ed esercita una forte attrattiva sul tipo di individui a cui è rivolta. Bisogna che i nostri giovani diventino capaci di riconoscerla, ne analizzino il messaggio e il vocabolario, non solo per essere capaci di disarmarne le trappole, ma anche per saper individuare in tempo chi invece ci è cascato.
Prevenzione significa un programma di informazione nelle scuole, organizzato dalle forze di polizia, dai servizi di sicurezza, dai pompieri. Non è così difficile, non è così strano abituare i ragazzi a prendere nota mentalmente di dove si trovano le uscite di sicurezza quando si entra in un locale, raccontare loro in dettaglio gli attentati riusciti o falliti, insegnare quali coincidenze o debolezze nel sistema di sicurezza o nella reattività di chi era presente hanno portato a quali risultati.
Il mondo nuovo è questo, è ora di preparare i nostri figli a viverlo nel modo migliore: liberi, sorridenti, e preparati.
(da Il Primato Nazionale, maggio 2018)